- Se cade il tabù del razzismo di Nadia Urbinati in la Repubblica del 25 settembre 2008
- L’incubatrice del razzismo di Stefano Rodotà in la Repubblica del 23 settembre 2008
NOI, I NUOVI BARBARI
Italiani brava gente, si diceva una volta. Ma a dar conto degli ultimi incredibili episodi di violenza, sembrerebbe che non è più così. Viaggio nel Paese dove sempre più spesso trionfano rancore, insicurezza e paura.
Domenica 14 settembre Abdoul Guiebre, un ragazzo di diciannove anni originario del Burkina Faso, ruba in un bar di via Zuretti, a Milano, due confezioni di biscotti. I proprietari, padre e figlio, lo inseguono e lo ammazzano a sprangate gridando: «Negro di…». I magistrati dicono che il razzismo non c’entra, ma c’entra tutto il resto: la futilità del furto, la reazione furiosa e spropositata, la banalità del male, insomma. Italiani brava gente, si diceva una volta. Oggi, a leggere certi recenti episodi di cronaca, sembra di essere diventati il Paese dell’intolleranza. Un’intolleranza che non è di matrice razzista, ma che può diventarlo, prima o poi, perché il razzismo cova nell’intolleranza.
Un atteggiamento che nasce dalla paura, dal bisogno di sicurezza, dall’inquietudine per il “diverso”. «Di fronte a un gesto minimo, padre e figlio hanno risposto con un gesto massimo. Sono saltate le forme di convivenza e i conflitti vengono risolti con la violenza», ha spiegato il sociologo Aldo Bonomi. «La morte di Abdoul lancia un segnale netto. La città è fragile e lo è da un pezzo». Chi ha preso una spranga e gridato quelle frasi, non l’ha certo fatto per legittima difesa, ha commesso un delitto a sfondo razzista, hanno scritto in un documento centinaia tra docenti universitari, liberi professionisti, insegnanti, sacerdoti come don Gino Rigoldi, pensionati e studenti, alla vigilia del suo funerale. La banalità del male non ha età. Può riguardare anche un gruppo di tredicenni, come quelli che nel Cremonese hanno infierito con sadismo nei confronti di un bambino di undici anni. O far dimenticare in un commissariato di Polizia, come quello di Monza, che viviamo nel Paese di Cesare Beccaria, così da ammanettare un povero cristo a una colonna per ore perché mancano le celle (ma a denunciare il fatto è stato lo stesso sindacato di Polizia, a testimonianza che la società civile ancora funziona).
A volte può bastare uno sguardo di troppo tra due giovani, come è avvenuto a Torino, dove un operaio incensurato di 25 anni ha cosparso di benzina l’auto in cui era seduto l’uomo con cui aveva avuto pochi minuti prima un banale diverbio, dandogli fuoco. Altre volte sono le parole a essere usate come pietre. Come quelle dell’ex parlamentare di Rifondazione Francesco Caruso («i comunisti non sono democratici e possono pure gambizzare»), uno che si è dichiarato “sovversivo a tempo pieno”.
L’Italia ha i nervi scoperti. Sempre di più si litiga per un niente. La guerriglia urbana ormai è diventata un fatto quasi ordinario. L’abbiamo vista a Pianura, nei giorni dell’emergenza della monnezza. L’abbiamo rivista a Ponticelli, sempre a Napoli, con lo sgombero di un campo nomadi, preso a pietrate e a molotov da scugnizzi, gente comune, malavitosi ed esponenti della camorra. Si è materializzata con la devastazione degli ultrà napoletani nella prima giornata di campionato. Ed è ritornata dopo la mattanza di nigeriani a Castelvolturno.
«Senza accorgersene, sta scomparendo quella coscienza del sociale e solidale che ha fatto l’Italia di ieri», ha scritto don Antonio Mazzi su questo giornale. Italiani brutta gente, insomma. Siamo diventati i veri barbari in casa nostra. Invasori del nostro Paese.